Biografia di Kate Bush
Biografia di Kate Bush
Poche donne nella storia del rock sono riuscite a unire tante qualità artistiche come Kate Bush. Compositrice, autrice, interprete, produttrice, arrangiatrice, polistrumentista (pianoforte, Fairlight, violino, basso, chitarra, drum-machine), ballerina, coreografa, regista: tutto ciò è riuscita ad essere in questi anni l’ex-ragazzina prodigio che a soli sedici anni stupì il mondo con “Wuthering Heights”.
Era una di quelle ballate destinate a lasciare il segno, una favola romantica ispirata a “Cime tempestose” di Emily Brontë, ma soprattutto un saggio dell’incredibile voce di Catherine Bush, in arte Kate, capace di ben quattro ottave di estensione. Un simile talento, nel rock al femminile, non si ricordava dai tempi di Janis Joplin. Ma con il canto straziante della grande blues-singer americana, Kate Bush aveva poco a che vedere.
La sua voce evocava le fiabe gotiche e il folk celtico, il misticismo medievale e gli incantesimi delle streghe, i riti tribali e il pop più etereo. Uno stile che di lì a poco avrebbe contagiato intere generazioni di cantanti, da Tori Amos a Elizabeth Fraser dei Cocteau Twins, da Bjork ad Anneli Marian Drecker dei Bel Canto, passando per mille altre.
Ho sempre provato piacere nel raggiungere note non facilmente raggiungibili. Una settimana dopo tocco quella nota e cerco di raggiungere quella ancora più alta.
(Kate Bush)
A dispetto dell’alone leggendario del suo personaggio, Kate Bush ha sempre preferito evitare le luci della ribalta. Così quando ha avuto un bambino, i tabloid inglesi l’hanno addirittura accusata di averne voluto occultare la nascita. Lei ha replicato in modo insolito, con una lettera al suo Fans Club: “Desidero che sappiate che sono molto felice e orgogliosa di avere un figlio così bello, Bertie è meraviglioso. Lontana dall’essere reticente, sto solo cercando di essere una buona madre protettiva e di donargli un’infanzia quanto più possibile normale, preservando al tempo stesso la sua privacy.
È una grande gioia per me essere mamma, così come lavorare al nuovo album. Spero sarete felici per me”.
Una carriera nata da una grande passione.
“Prima di frequentare la scuola, prima di imparare a leggere, cantavo i ‘traditional’ irlandesi e inglesi. Credo che la musica abbia catturato la mia anima ancor prima che l’educazione neppure mi sfiorasse”, ha raccontato.
Kate Bush, all’anagrafe Catherine Bush (Welling, 30 luglio 1958), nella casa grande dei Bush, nelle campagne del Kent vicino Londra, la musica non mancava mai.
Il padre di Kate, medico di professione, amava suonare al piano le melodie di Chopin, Beethoven e Schubert. La madre Hannah, irlandese di nascita, infermiera, suonava invece l’arpa ed amava danzare sulle note dei traditional della sua terra. Il fratello minore, Jay, amava suonare la chitarra ed era un seguace del filosofo J. B. Gurdjieff, i cui insegnamenti segneranno il repertorio della cantante inglese. Il fratello maggiore Paddy era specializzato nella costruzione di quegli strumenti medievali che troveranno posto in diversi dischi di Kate. “Avevamo un vecchio organo in un fienile annesso alla nostra casa – racconta Kate Bush – e io passavo molto tempo a suonare inni religiosi con la pedaliera. Amavo molto quelle melodie e armonie, e capii da sola che un accordo era formato da un minimo di tre note, e che cambiando una sola di queste si possono ottenere accordi completamente diversi per accompagnare altre note. Da lì è nato il mio interesse al modo in cui la musica potesse cambiare usando accordi diversi. Man mano che i topini rosicchiavano l’organo, perdevo l’uso di sempre più note, così mi dedicai al pianoforte Nonostante le difficoltà incontrate tra le mura della rigida St Joseph’s Senior School, Kate rivelò subito il suo genio musicale. Senza alcuna base teorica alle spalle, salvo le poche lezioni di violino, tra i 10 e i 13 anni si esercita strimpellando sui tasti bianchi e accompagnando al pianoforte Paddy che suona il violino. “Ho sempre provato piacere nel raggiungere note non facilmente raggiungibili – ha raccontato – Una settimana dopo tocco quella nota e cerco di raggiungere quella ancora più alta. Ho sempre sentito dentro di me che si possono acuire i propri sensi se ci si prova. La voce è come uno strumento. La ragione per cui ho cantato ‘Wuthering Heights’ con note così alte è perché ho sentito che così doveva essere. Il libro ha un’atmosfera misteriosa e io volevo che il brano la riflettesse”.
Nel ’71 esistono già delle versioni embrionali di brani come “The Man With The Child In His Eyes” e “The Saxophone Song”, inclusi successivamente nell’album d’esordio, The Kick Inside.
Lindsay Kemp mi ha insegnato che ci si può esprimere con il proprio corpo, e che quando il tuo corpo è sveglio lo è anche la tua mente.
(Kate Bush)
Kate BushMa Kate ha un’altra passione: la danza e il mimo. Dopo un corso alla scuola Elephant and Castle di Londra, incontra Lindsay Kemp, già maestro di David “Ziggy Stardust” Bowie, uno dei suoi beniamini. “Mi recai a vedere un suo spettacolo e fu allora che all’improvviso realizzai che era ciò che stavo cercando, quel tipo di movimento unito alla musica. Così ho iniziato a seguire alcune delle sue lezioni. Mi ha insegnato che ci si può esprimere con il proprio corpo, e che quando il tuo corpo è sveglio lo è anche la tua mente”, ha raccontato Kate Bush nella sua “Biography”. E Lindsay Kemp la ricorda così: “Ho visto questa piccola cosa brillante: mi ricordava Campanellino o Wendy di Peter Pan o qualcosa del genere. In classe si donava completamente. Da quella sottile, fragile e timida persona, venne fuori quel potenziale espressivo. Amava il dramma. Io l’ho solo aiutata un po’ a danzare, ad essere un po’ più incisiva di quanto non fosse prima”. La passione per la danza e per l’esoterismo (pare che ancora si diletti nell’arte dei “tarocchi”) si uniscono in Kate Bush a un universo musicale variegato, in cui non c’è solo il folk e la classica. Roxy Music, Beatles, Rolling Stones, King Crimson, Pink Floyd, Steely Dan e Fleetwood Mac sono le sue rockstar preferite. Ma la sua vera musa è Billie Holiday: “E’ stata una scoperta molto importante per me. La sua voce mi toccava. Così emozionante, così lacerante. Quando cantavo a 18 anni, portavo sempre un fiore dietro l’orecchio per assomigliarle: sentivo che mi avrebbe portato fortuna. Ancora oggi è una grande ispirazione”. Un amore che Kate Bush ha tradotto qualche anno fa nella cover di un classico della grande interprete americana, “The Man I Love”.
Il suo “angelo custode” è invece David Gilmour, chitarrista dei Pink Floyd. E’ lui che rimane folgorato dalle qualità della ragazzina di 14 anni che aveva sentito cantare in un demo gracchiante. E’ lui che le produce alcuni brani e la mette in contatto con Terry Slater, il responsabile della Emi. Che racconta così la nascita di un idillio: “Un giorno stavo passando davanti all’ufficio del mio collega Bob Mercer quando sentii il demo di ‘The Man With The Child In Her Eyes’. Spalancai la porta e chiesi a Bob: ‘Chi è quest’uccellino?!’, e lui “E’ una ragazza di nome Kate Bush”. Gli dissi: ‘Questo brano è ottimo: cosa devo fare per mettermi in contatto con lei?’. Mi diede il suo numero di telefono e la chiamai”.
Inizia così la carriera di una delle più grandi cantanti rock di tutti i tempi. Una circostanza curiosa segna la gestazione dell’album d’esordio, The Kick Inside (1978). La Emi vorrebbe imporre come primo singolo “James And The Cold Gun”. Ma Kate non ne vuole sapere: lei ha scelto “Wuthering Heights”. “Io le risposi che il suo lavoro era di scrivere canzoni mentre il mio era quello di portarle sul mercato – ricorda Bob Mercer – Sentivo che se avesse sperimentato un fallimento ad una così giovane età non sarebbe stata capace di sopportarlo. In quei giorni ero molto occupato. Dovevo lottare contro il fiasco dei Sex Pistols e non mi aspettavo da lei un simile comportamento. Stavo per perdere la pazienza quando lei scoppiò a piangere. A quel punto le dissi: ‘Va bene, ma quando sbatterai contro il muro imparerai a non interferire più”.
Ma Kate Bush non sbatte contro il muro: “Wuthering Heights”(1978) spopola restando in testa alle classifiche britanniche per quattro settimane. E l’exploit è tale che anche le vendite dell’omonimo romanzo di Emily Brontë subiscono un consistente aumento. Da allora la Emi è costretta ad ascoltarla.
I’m so cold!
Let me in-a-your window…
Ooh, it gets dark! It gets lonely
On the other side from you
(“Wuthering Heights”)
The Kick Inside (1978) folgora il pubblico per la sua ricchezza e originalità. E’ l’album d’esordio di una sedicenne spaventosa, in grado di cantare fino a quattro ottave di estensione, passando con disinvoltura da registri da “strega” ad altri dolcissimi, da narratrice di fiabe. Un disco forse acerbo (e come poteva essere diversamente!), ma nel complesso molto innovativo. Raramente si era vista una cantautrice unire suoni etnici, melodie pop, arrangiamenti quasi gotici e una verve da folksinger doc. C’è l’impronta di David Bowie (nel melodismo, nel gusto per le pantomime, nella ricerca dell’effetto, dello shock), ma anche una capacità di sintesi molto vicina al sincretismo di Peter Gabriel (considerato da molti il suo vero maestro). La conturbante “Wuthering Heights“, costruita su un tempo dispari, è un supremo saggio di estensione vocale e di melodismo romantico, una struggente rievocazione del mito della dolce Cathy, del crudele Heathcliff e del loro tempestoso amore: “Heathcliff, it’s me – I’m Cathy/ I’ve come home. I’m so cold!/ Let me in-a-your window… Ooh, it gets dark! It gets lonely/ On the other side from you/ I pine a lot. I find a lot/ Falls through without you/ I’m coming back, love/ Cruel Heathcliff, my one dream/ My only master”. Ma le “cime” sono quelle raggiunte dalle corde vocali di Bush: il suo soprano si inerpica su tonalità acutissime, che sembrano quasi schizzare fuori dal pentagramma, dipingendo una meravigliosa melodia.
Le tredici tracce sono altrettante tappe di un viaggio fantastico stile “Alice nel paese delle meraviglie”: una scorribanda nelle leggende del folk e nei colori del glam, nell’innocenza perduta e nelle magie dell’occulto. Su quest’ultimo versante spicca soprattutto “Strange Phenomena”, uno dei due brani prodotti da Gilmour (l’altro è la suadente “Moving”, che accarezza invece le corde più teneramente infantili della personalità di Kate). Il disco è un susseguirsi di figure misteriose, oniriche, fiabesche, come “James And The Cold Gun” o “The Man With The Child In His Eyes”, protagonista del secondo grande hit del disco: una dolcissima ballata pop in cui ritorna il tema della purezza infantile come condizione ideale dell’umanità. Gli arrangiamenti sono sempre ricchi e fantasiosi, e risentono palesemente della passione di Bush per le atmosfere sensuali e melodrammatiche del glam (Bowie e Roxy Music, in particolare).
Non voglio stare sul palco sentendomi me stessa, non credo di essere un soggetto interessante da guardare. Ciò che voglio è sentirmi il personaggio del brano.
(Kate Bush)
Il successo è ribadito pochi mesi dopo da Lionheart. Meno calibrato e più confuso del precedente, il disco è dominato da un melodismo pop nel complesso un po’ stucchevole (esempio tipico: “Oh England My Lionheart”), con l’eccezione del fortunato singolo “Wow”, saggio del suo canto sopraffino che ondeggia magicamente attraverso il coro, e di altri brani molto “fiabeschi” come “In Search of Peter Pan” e “Kashka From Baghdad”, sempre in bilico tra melodie pop e orientalismi folk.
Nell’aprile 1979 Kate Bush debutta sul palco, al Palladium di Londra. Scrive testi, musiche e coreografia, disegna i costumi e conquista pubblico e critica per come canta, danza e recita.
Le sue performance sono un misto di sensualità tenebrosa e tenerezza, poesia e provocazione kitsch. Una carica esplosiva che la cantante spiega così: “Non voglio stare sul palco sentendomi me stessa, non credo di essere un soggetto interessante da guardare. Ciò che voglio è sentirmi il personaggio del brano. Credo che sia più interessante per chi viene a vedere il concerto ed è anche una sfida maggiore per me. Sentendomi il personaggio della canzone, all’improvviso provo una forza e un’energia che forse normalmente non avrei. Mi è molto difficile essere me ‘on stage’: resterei ferma lì a rigirarmi i pollici”.
Kate BushL’anno successivo arriva il trionfo del singolo “Babooshka“, una filastrocca magica e ammaliante (“sceneggiata” con tanto di mise kitsch nel relativo video), che la consacra definitivamente star del rock mondiale. L’album che ne consegue, Never For Ever, arricchito anche dalla tenera ballata antimilitarista “Army Dreamers“, è forse il suo lavoro più completo. “E’ stato il mio primo disco che sono riuscita ad ascoltare rilassata e ad apprezzare veramente – racconta -. Ha rappresentato il mio primo passo nel controllo dei suoni. Sono stata molto più coinvolta nell’intero lavoro di produzione, quindi ho avuto molta più libertà e controllo”. L’album è la sintesi perfetta del melodismo pop di Bush e della sua sensibilità “etnica”, del suo gusto per il folk tradizionale e del suo slancio avveniristico-elettronico. Il suo canto, poi, ulteriormente affinato, è sempre più spettacolare: spaventosi i suoi deliri stregoneschi, ma anche la sua estensione vocale, che fa impallidire il 99 per cento delle colleghe.
Never For Ever è pervaso da un gusto teatrale tipicamente “British” (e infatti piacerà poco in America), figlio ancora una volta del glam di Roxy Music e David Bowie. Oltre al singolo “Babooshka”, ci sono le ballate più classiche come “Breathing” (che a dispetto del sound “leggero” tratta un tema drammatico come le conseguenze della guerra nucleare) e la stupenda ode antimilitarista di “Army Dreamers”, magnificamente sussurrata dalla vocina di Bush tra lievi arrangiamenti acustici e rumori di fucili che vengono caricati in lontananza. La “leggiadria” di quest’album è testimoniata anche da un brano come “All We Ever Look For”, che sembra uscito da una commedia shakespeariana.
Dal 1980 Kate Bush inizia a collaborare con Peter Gabriel, con il quale si narra abbia avuto anche una lunga relazione. E i frutti si vedono nel progetto etno-folk The Dreaming (1982), ispirato a una pittura tribale degli aborigeni australiani risalente a molti secoli fa. E’ uno dei dischi più sperimentali e coraggiosi di Kate Bush, che all’ex-leader dei Genesis regalerà anche un memorabile duetto in “Don’t give up” (da “So”, 1986). Non tutti i brani, in realtà, rivelano una capacità di scrittura adeguata alle ambizioni. Ma l’intento è comunque lodevole: una rivisitazione in chiave assolutamente originale (e vagamente “pop”) della musica “etnica” più tribale (specie africana). Dominano il ritmo, le percussioni, ma anche le consuete “sceneggiate” di Bush: “Sat In Your Lap” è forse la più spaventosa ed efficace, ma anche le acrobazie vocali della title track restano memorabili. “Leave It Open”, invece, non dimentica l’attitudine “gotica” da sempre presente nei suoi dischi.
In generale, Kate Bush non pone più limiti alle sue corde vocali che sembrano ormai possedere l’estensione di un pianoforte. Ma nel frattempo la cantante inglese si allontana progressivamente dalle scene, centellinando apparizioni in tv e concerti.
Kate BushDopo tre anni di silenzio, il più accessibile Hounds Of Love, primo lavoro interamente inciso nel suo studio di registrazione domestico, la riporta agli onori della ribalta e delle classifiche anche (finalmente!) in America. Messi da parte gli esperimenti etnici di The Dreaming, Bush propone un saggio di pop-rock più ritmato e aggressivo, al limite della dance (non a caso alcuni brani saranno anche remixati).
Gli arrangiamenti tuttavia sono sempre raffinatissimi e alcuni brani sono tra i più riusciti della sua produzione: il trascinante singolo “Running Up That Hill”, la sinuosa title track, l’epico incedere di “Cloudbusting” mutuato dal “Bolero” di Ravel. I riferimenti sono soprattutto tre: l’ethno-funk di Peter Gabriel, l’elettronica soffusa dei Pink Floyd post- Dark Side Of The Moon e una grazia melodica parente stretta dei Beatles. A rimetterci, tutto sommato, è solo il canto di Bush, che rinuncia agli acuti che l’hanno reso celebre, “scendendo” di qualche tono.
Kate Bush torna in auge anche grazie alla quasi contemporanea pubblicazione di The Whole Story, un’eccellente antologia che ne ripercorre i successi. Ma da quel momento inizia la parabola discendente, appena interrotta (in parte) con il raffinato The Sensual World (1989), che si avvale dell’orchestra e del coro della radio bulgara e racconta “della sensualità del mondo e di quanto piacere procuri ai nostri sensi se ci doniamo ad essa”. Il suo sound prosegue sulla falsariga di Hounds Of Love, ma con meno melodie al suo arco. Non mancano, tuttavia, almeno due brani splendidi, come l’intimista “This Woman’s Work” (con un ottimo testo) e la sensuale “Never Be Mine”, nel solco del suo fatalismo romantico.
L’unico disco di Kate Bush negli anni 90 – The Red Shoes – segna un netto declino: confuso, velleitario, a volte affogato in canzoncine pop senza arte né parte, sembra quasi raffigurare il suo canto del cigno. Anche la capacità d’interpretazione di Bush sembra aver perso i suoi tratti più emozionanti, divenendo soprattutto “maniera”. Ma sbagliare un disco dopo una carriera simile, tutto sommato, glielo si può ampiamente concedere.
Quando sarò completamente soddisfatta di un mio lavoro sarà la fine, le campane a morto.
(Kate Bush)
Vegetariana, Kate Bush crede nella reincarnazione, si dice affascinata dalla religione pur definendosi “una persona non molto religiosa”, e sostiene che quando sarà completamente soddisfatta di un suo lavoro “sarà la fine, le campane a morto”.
I suoi fan aspetteranno dodici anni l’uscita del nuovo album, con Kate impegnata soprattutto nel suo nuovo mestiere di madre.
Kate BushL’ambizioso Aerial (2005) pone fine alla lunga attesa, con due cd (il primo “A Sea Of Honey”, il secondo “A Sky On Honey”) per poco più di 80 minuti complessivi. Si parte con il singolo “King Of The Mountain”, brutto tentativo di rifare “Running Up That Hill”, con cui condivide l’andamento cadenzato. Il secondo brano, “Pi”, lascia addirittura perplessi: bel lavoro di basso e molto curioso il lirismo con cui Kate canta dei numeri (ovviamente 3, 14…), una spruzzata di elettronica di contorno: bei suoni, ma poco altro. Cambio completo di registro con “Bertie”, una delle tracce migliori, con un’atmosfera curiosamente rinascimentale, con tanto di cello e “renaissance guitar”. Sembra veramente un brano di John Renbourn dei Pentangle. “Mrs. Bartolozzi” sfodera una voce bellissima come al solito, piano romantico e cupo, un saliscendi denso di dolcezza e tensione. Con “How To Be Invisible” riprende tono una dimensione ritmica, con retrogusto quasi blues e arrangiamenti ricchi, ma sostenendo una linea melodica inesistente…. Poi arriva “Joanni”, il punto più basso del disco: ritmica elettronica, birignao a profusione per infiocchettare un brano scialbo e inutile. In chiusura di primo cd, arriva però un gioiello, “A Coral Room”, piano e voce, cuore in mano e grande poesia, un abisso di spleen. Il clima e lo stile di “A Coral Room” pervade anche l’inizio del secondo cd. “Prelude” è quello che dice il titolo e introduce “Prologue”, grande intimismo con un filo di oscurità inquieta, poi “An Architect’s Dream”, come sospesa su un tappeto di tastiere e percussioni, e “Sunset”, introdotta dalla brevissima “The Painter Link”, ancora focus su piano e voce, bellezza cristallina con finale finto latino. Siamo ai momenti migliori del cd, con melodie oblique e sfuggenti, suoni e voce pieni di sfumature. Il clima si alleggerisce un po’ con “Somewhere In Between” (introdotta da “Aerial Tal”), una piccola svisata verso un pop più di maniera non congruo con il tono del disco. “Nocturn”, in cui ritorna un clima elettroacustico, si rivela accattivante, ma alla fine ti porta in giro per otto minuti in maniera un po’ inconcludente, e il finale, con la title track, ritmica sintetica a tratti incalzante, lascia molto perplessi nella sua evanescente ossessività. Lavoro a tratti molto raffinato, spesso intimo e non di facilissima assimilazione, si pone come sicuramente il disco di Kate Bush più lontano dagli stereotipi pop/rock, come il più impegnato e forse impegnativo e coraggioso, però altrettanto certamente non come il migliore.
La successiva interruzione del silenzio di Kate Bush arriva nel 2011, con la raccolta Director’s Cut, nella quale rimaneggia un pugno di canzoni estratte da “Sensual World” e da “The Red Shoes”. Si tratta di un remake elegante, ma non particolarmente denso dal punto di vista artistico e con pochi sussulti al livello delle impennate ritmiche di “Lily”, che quasi aizzano la Bush propensa verso qualche urlaccio sempre controllato.
Lasciano invece abbastanza inermi le solite cavalcate folk tribali di “The Red Shoes”, con armonizzazioni vocali già perfettamente sviscerate all’epoca di “The Dreaming”, ed era il 1982 ed era tempo di un altro capolavoro. Un buon cuscino può invece attutire i colpi di sonno che accompagnano le lungaggini oniriche di “This Woman’s Work”. Molta l’accademia che pervade il soliloquio pianistico di “Moments Of Pleausure”, con quel misterioso coro che inframmezza gli arpeggi facendo scivolare delicatamente la canzone nei meandri della musica sacra. Ed è simpatica l’irruenza hollywodiana di “Top Of The City”, con improvvise esplosioni orchestrali, come pure le stilettate chitarristiche che condiscono il gospel alla Bush di “And So Is Love”. Di maniera la conclusione simil-r’n’r di “Rubberband Girl”, ma proprio per questo perfettamente in sintonia con un progetto che tuttavia sa quasi soltanto di stanca routine.
Sempre nel 2011 arriva un album di materiale inedito, 50 Words For Snow. Uno dei suoi lavori più eccentrici di sempre, complice un soffuso e sofisticato tappeto sonoro che accompagna l’ascoltatore all’inverno più gelido e malinconico sulle note sussurrate di canzoni minimali, di melodie dilatate che spesso ruotano come dervisci in punta di piedi. L’elettronica c’è ancora, ma solo sullo sfondo e in piccole, tenui pennellate: il protagonista del paesaggio sonoro è quasi sempre il pianoforte.
Se da una parte Kate Bush fugge con intelligenza ai cliché dei dischi stagionali (questo non è un album natalizio e non contiene standard) dall’altra insiste forse troppo nello sviluppo di certe idee accennate già in Aerial (si pensi a “Mrs. Bartolozzi”). Il brano iniziale “Snowflake” è una poesia evocativa cantata insieme al figlio tredicenne Bertie, “Lake Tahoe” profuma di Joni Mitchell e “Misty” narra di un insolito incontro erotico tra Kate e un pupazzo di neve con un prevedibile, triste epilogo.
“Wild Man” è il cuore pulsante del disco e recupera in parte la sopita anima rock della cantautrice – anche se richiama più “King Of The Mountain” che “Rubberband Girl”. Gli ospiti d’onore sono Andy Fairweather Low, ex-membro degli Amen Corner divenuto in seguito un sessionman per Roger Waters ed Eric Clapton, Elton John (che arricchisce con la sua voce “Snowed In At Wheeler Street”, una canzone che finalmente tocca le corde dell’emozione) e l’attore Stephen Fry, che recita cinquanta nomi veri e inventati che indicherebbero la neve. Tra alti e bassi chiude la raccolta la soffice “Among Angels”.
Ancora una volta ci si trova di fronte ad un lavoro che ha diviso pubblico e critica. Qualcuno parla dell’ennesimo capolavoro, altri invece affermano che la Regina è nuda e ha poco (se non nulla) ancora da dire. Probabilmente la verità sta nel mezzo: quella di 50 Words For Snow è musica di sottofondo, splendidamente registrata ma che indulge spesso in una new age un po’ incolore. Dall’autrice di “The Ninth Wave” (e di “A Sky Of Honey”) è lecito aspettarsi molto di più.
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